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Victor Sebestyen, "1946: La guerra in tempo di pace"

Posted By: TimMa
Victor Sebestyen, "1946: La guerra in tempo di pace"

Victor Sebestyen, "1946: La guerra in tempo di pace"
Rizzoli | 2016 | ISBN: 8817086010 | Italian | EPUB/AZW3/MOBI | 490 pages | 0.6/1.6/1.5 MB

La fine della Seconda guerra mondiale non fu immediata. Non ci fu nessun ritorno istantaneo alla pace: decine di milioni di profughi, sopravvissuti e prigionieri rimasero in preda alla fame, alle malattie, alle vendette dei vincitori. Le macerie delle città bombardate rimasero dov'erano per anni, soprattutto nella Germania sconfitta. Il primo anno del dopoguerra segnò anche il culmine delle tensioni tra Truman e Stalin, mentre in Cina vennero gettate le premesse per l'ascesa di Mao; si affermò il Congresso Nazionale Indiano di Gandhi, mentre in Medio Oriente prendeva corpo l'idea di uno Stato d'Israele. Quando comincia una guerra e quando finisce? Quali sono le tracce che non si possono cancellare? Ogni guerra genera altre guerre?

Recensione
1946, tra carrozzine e biancheria intima il mondo ricomincia

Carlo Greppi, Tuttolibri - La Stampa

«Credi che questa faccenda finirà, un giorno?». «Non so. Mio padre diceva che dipende dalla battaglia». «Quale battaglia?». «La battaglia di Stalingrado». […] «E che faranno, i nostri amici, quando avranno vinto la battaglia?». «Faranno un mondo nuovo». «Noi non potremo aiutarli. Siamo troppo piccoli. Peccato». Nel romanzo d’esordio di Romain Gary uscito nel 1945, Educazione europea, in questo dialogo tra due ragazzini costretti a crescere troppo in fretta, leggiamo le illusioni e le speranze del mondo in guerra. Le stesse che Curzio Malaparte, vedendone la fine, evidenziava così in Kaputt: «Preferisco che tutto sia da rifare, al dover tutto accettare come un’eredità immutabile».
Pianeta Terra, 1946. È la difficile transizione alla pace, è l’incubazione della Guerra fredda a colpi di prime crisi petrolifere e bracci di ferro spionistici e diplomatici, è un groviglio di occupazioni e liberazioni, pulizie etniche ante litteram, espulsioni di massa, è la carenza endemica di cibo. «I tedeschi – ci racconta Victor Sebestyen – la chiamavano Stunde Null, ora zero. È inutile dire che nella storia o nella vita non esiste niente di simile: tutto comincia in qualche modo, dal niente non nasce niente». Eppure il libro dello storico, scrittore e giornalista ungherese Sebestyen – risultato di molti anni di viaggi e ricerche – riesce a fotografare proprio quel momento, quello in cui sembra che tutto finisca, o che tutto abbia inizio.
Le pagine di 1946. La guerra in tempo di pace trascinano il lettore con maestria in oltre trenta «quadri» che si aprono con scene quasi cinematografiche, e che insieme compongono un affresco terribile e meraviglioso di un pianeta ancora in ginocchio, nell’immediato dopoguerra. L’andamento narrativo coinvolgente del libro ci fa respirare una storiografia divulgativa lontana da polemiche ideologiche: al contrario, l’autore propone prospettive complesse sugli eventi e sui processi storici che hanno segnato l’anno 1946. Colpisce, ad esempio, l’equilibrio del giudizio con cui affronta l’inestricabile dilemma del tentativo di denazificazione della Germania e della «ristrutturazione» imposta al Giappone e, sebbene sfortunatamente l’Italia manchi dall’affresco, l’indagine di Sebestyen si estende anche ai paesi dove erano dilagati i fascismi e i collaborazionismi europei.
L’autore è tuttavia ben conscio del fatto che, come il conflitto, anche il suo dopoguerra fu mondiale, e uno dei maggiori pregi di 1946 è proprio il suo farsi world history, intrecciando al contempo la storia politico-diplomatica di quattro continenti con quella «dal basso», focalizzandosi su come le popolazioni di allora provarono a uscire dalla carneficina del 1939-1945, in Cina come nel subcontinente indiano, nel nascente Stato d’Israele come in Iran. E anche su questa sponda del mondo, naturalmente.
«Qual è la condizione in cui è stata ridotta l’Europa? In vaste regioni, grandi masse tremanti di esseri umani tormentati, affamati, angosciati e smarriti guardano con sconcerto le rovine delle loro città e delle loro case, e scrutano foschi orizzonti temendo l’approssimarsi di qualche nuovo pericolo, tirannia o terrore», osservava Winston Churchill il 19 settembre del 1946. «Ma, come capita spesso – scrive Sebestyen riferendosi ai mesi successivi –, è nelle cose apparentemente piccole che si possono scorgere i primi segnali. […] nei grandi magazzini di Parigi frequentati dalle donne, la merce più venduta era, non c’è da stupirsi, la biancheria intima. Ma il secondo articolo più ordinato erano le carrozzine, un voto di fiducia biologico nel futuro». E allora, mantenendo lo zoom sulla nostra Europa, l’immagine che resta impressa è quella di un continente sgretolato, è vero, ma nel quale affiorava una straordinaria voglia di vivere. Ci ritorna più volte, l’autore ungherese: «molti cooperanti – spesso appartenenti a organizzazioni religiose – si dissero scioccati per come i campi [per gli sfollati] fossero luoghi di febbrile attività sessuale», racconta nel capitolo dedicato all’Amministrazione delle Nazioni Unite per l’assistenza e la riabilitazione (UNNRA), dal titolo «Rifugiati». Ed è proprio in queste pagine, tra le continue tensioni che opponevano cooperanti, politici e militari (che erano preparati a combattere, non ad assistere), che intercettiamo il problema oggi più attuale, doloroso, stringente. Nelle parole dell’amministratore di un campo troviamo forse anche la soluzione: «L’atteggiamento standard era quello di considerarlo come un problema logistico più che umanitario».
Ad aver bisogno di aiuto, allora, erano gli europei, oramai indissolubilmente legati tra loro anche dalla voglia di lasciarsi alle spalle la guerra, di dimenticare quel mondo in cui milioni erano i morti, e milioni stavano ancora vagando alla ricerca di una meta. Perché, per molti, una casa alla quale tornare non c’era